L’agricoltura italiana di qualità. Residuo Zero: un impulso per lo sviluppo dell’agroecologia.

Dopo un anno e mezzo di pandemia l’attuale situazione economica, politica, sociale si presenta particolarmente complessa.

L’emergenza sanitaria e le conseguenti procedure di contenimento attuate ed attuali, incidono sempre più sull’economia del pianeta: il modello economico basato sull’utilizzo delle materie fossili sembra arrivato alla sua fase conclusiva e si registra una maggiore sensibilità crescente verso le energie definite rinnovabili.

Nel contempo, la produzione agricola italiana è sempre più condizionata dalla grande distribuzione organizzata (G.d.O), disciplinata dalla logica strategica del “primo prezzo”.

Questa politica del prezzo più basso è tra le principali cause delle difficoltà della nostra agricoltura che sceglie di diminuire la qualità dei prodotti e le tutele dei propri lavoratori. Sull’altare del primo prezzo si immolano spesso anche le pratiche più virtuose della nostra agricoltura, biologico compreso.

La situazione risulta ancora più paradossale se si considera che la riduzione dell’impiego degli agrofarmaci in agricoltura, dalla fine degli anni ’90, è stata richiesta proprio dalla distribuzione organizzata italiana ed europea, per rispondere ai profondi cambiamenti degli stili di consumo da parte dei consumatori. Oltre alla riduzione delle percentuali di residui di sostanze chimiche presenti nelle materie prime (30 – 50% del RMA residuo massimo ammesso), oggi molte catene distributive, soprattutto del Centro e Nord Europa, impongono anche la riduzione del numero massimo di sostanze presenti e l’esclusione di gruppi di sostanze chimiche ritenute particolarmente pericolose (seppur ammesse per legge[1]).

Durante la pandemia le attenzioni salutistiche rispetto al cibo consumato sono aumentate esponenzialmente, parallelamente alla sempre maggiore richiesta di conoscenza delle origini territoriali e dei meccanismi produttivi delle varie filiere.

L’agricoltura italiana si sta dimostrando ancora una volta capace di profonde trasformazioni.

La certificazione volontaria “Residuo Zero” rappresenta una delle più recenti ed interessanti evoluzioni all’interno del panorama produttivo italiano, soprattutto per il fatto che i valori sottesi sono percepiti dal consumatore con maggiore facilità e chiarezza.

Il modello “Residuo Zero” risponde alla domanda di maggiore qualità offrendo un prodotto tale e quale o trasformato sicuro. “Residuo Zero” è la garanzia che, nell’alimento, non siano presenti fitofarmaci o altri residui chimici oltre il limite di quantificazione analitica, ovvero, il limite di rilevabilità.

La pratica del “Residuo Zero” si fonda su due capisaldi fondamentali:

  1. Produzione responsabile. Consiste nella realizzazione di prodotti e servizi socialmente vantaggiosi e sostenibili dal punto di vista ambientale ed economico.
  2. Consumo responsabile. Consiste nell’abbandonare la strategia “dell’acquisto di impulso” basata essenzialmente sul solo confezionamento, presentazione e prezzo finale del prodotto. Al contrario, si basa sul fornire al consumatore una corretta ed esaustiva informazione sulla sicurezza dei prodotti alimentari proposti, sui suoi reali contenuti ambientali, sociali, etici ed il percorso di filiera.

Non è da sottovalutare il fatto che per molti produttori si tratta di cambiamenti importanti, ma l’educazione alimentare insita in questi processi produrrà una maggiore tutela sia per la collettività, sia per gli interessi delle aziende.

Per quel che concerne i processi di produzione, “Residuo Zero” ha due obiettivi chiari ed univoci:

  1. Eliminare del tutto dal prodotto finale ogni residuo di prodotti chimici, ovvero portarli al di sotto dei limiti di rilevabilità e di quantificazione analitica.
  2. In tutto il percorso di filiera ridurre ancor più gli input chimici oltrepassando sensibilmente i risultati, già ottimi, ottenuti con la “lotta integrata[2]”. Ogni qual volta sia possibile, eliminare del tutto l’uso della chimica.

Il “Residuo Zero” infatti:

  • Parte dall’applicazione di metodi agricoli sostenibili sulla base di esperienze e conoscenze tecniche specifiche, prediligendo i metodi non chimici. Seleziona e limita ulteriormente l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi, impiegando fitofarmaci scelti tra quelli a più basso impatto ambientale e bassa residualità, al fine di ottenere dei prodotti del tutto privi di residui rilevabili.
  • Coinvolge non solo le aziende agricole che aderiscono al progetto, ma anche l’industria di trasformazione, la logistica che accompagna lo sviluppo agro-industriale, fino ad arrivare alla grande e media distribuzione, come anche al mercato rionale.
  • Applica moderne tecnologie insieme all’expertise degli agricoltori per garantire un risultato quantitativo adeguato a sostenere le necessità della collettività, senza scendere a compromessi sugli aspetti di salubrità finale dei prodotti.
  • Cerca la sintesi tra Biologico e lotta integrata. Lo scopo di “Residuo Zero” non è certamente la competizione tra le due pratiche agronomiche di produzione, bensì la fusione ed armonizzazione in grado di garantire sempre e comunque la qualità del prodotto finale.

Poiché “Residuo Zero” rappresenta l’evoluzione di sistemi sostenibili, chi richiede la certificazione deve avere ottenuto, o contestualmente richiedere (e impegnarsi a mantenere per l’intero ciclo di certificazione), almeno una delle seguenti certificazioni:

  • UNI 11233:09 “Sistemi di produzione integrata nelle filiere agro-alimentari”
  • SQNPI – “Sistema Qualità Nazionale di Produzione Integrata”
  • A.P. – IFA – Fruit & Vegetable

Chi richiede la certificazione deve redigere un disciplinare di produzione, o documenti analoghi, che descriva le regole con cui devono essere svolte le principali attività aziendali per garantire il raggiungimento degli obiettivi stabiliti.

Il disciplinare dovrà rendere visibile e trasparente il sistema di gestione del prodotto; rendere sistematica l’esecuzione delle attività e dei controlli interni; favorire l’addestramento del personale; verificare ciclicamente la conformità delle attività svolte; dimostrare la conformità delle attività svolte e dei prodotti ottenuti (anche mediante l’implementazione di piani di campionamento ed analisi dei prodotti); dimostrare la capacità di mantenere un sistema efficiente di rintracciabilità dei prodotti oggetto di certificazione; dimostrare la capacità di monitorare e gestire i prodotti che eventualmente non risultassero conformi al disciplinare stesso.

La prima e sostanziale “certificazione” dovrà essere fornita proprio dai vari attori.

Le certificazioni sulla qualità e in particolare sull’assenza di sostanze chimiche, oggi non sono solo possibili attraverso l’azione degli enti certificatori. Ora si può contare anche su una nuova tecnologia in grado di registrare e quindi certificare ognuno dei passaggi legati alla catena di trasformazione che porta i prodotti agricoli dal campo al banco di vendita sia nell’ambito della GDO o in un qualsiasi mercato rionale di città.

Utilizzando le così dette “blockchain[3]” si è infatti in grado di tracciare e verificare in maniera trasparente e incontrovertibile ogni passaggio della filiera produttiva e di trasformazione del prodotto agricolo.

Il successo e la diffusione del “Residuo Zero” sono intrinsecamente legati alla comunicazione di tutta la sua pregnanza, che va ben oltre la sicurezza alimentare. Il consumatore finale dovrà avere a disposizione tutte le informazioni necessarie per definire e qualificare il proprio acquisto, soprattutto quelle relative la presenza di sostanze chimiche all’interno dei prodotti. Le aziende saranno quindi chiamate a descrivere e certificare in etichetta le caratteristiche e i valori del prodotto, riassumendo l’intero percorso di filiera.

Un modello che può e deve essere diffuso.


[1] Per quel che concerne l’azione dei governi, la riduzione dell’impiego degli agrofarmaci (pesticidi) come altri input chimici rappresenta uno dei principali obiettivi delle politiche di sostenibilità a livello mondiale. Si veda: “Agenda 2030“ delle Nazioni Unite, la strategia “Farm to Fork” varata dalla Commissione Europea nel dicembre 2019, che prevede la riduzione del 50% dell’uso complessivo di agrofarmaci e di almeno il 20% dell’uso dei fertilizzanti entro il 2030.

[2] La lotta integrata è una pratica di difesa delle colture che prevede una drastica riduzione dell’uso di fitofarmaci mettendo in atto diversi accorgimenti. Parte dalla consapevolezza che quando si interviene in un ecosistema si alterano le reti trofiche. Sfrutta i fattori biotici e abiotici di regolazione interna agli ecosistemi a suo vantaggio e usa tutti gli strumenti possibili, non limitandosi quindi ai mezzi chimici (biologici, culturali, biotecnologici…). Questo approccio è prevalentemente usato nella lotta contro gli insetti, ma si può estendere nella lotta contro tutti gli organismi dannosi (funghi, roditori…). Il suo obiettivo è quello di mantenere l’organismo dannoso entro una soglia, limite oltre al quale l’organismo stesso crea danno economico (non vuole arrivare all’eradicazione, ma al contenimento). I limiti della lotta integrata sono costituiti dai maggiori costi di produzione, dalla necessità di una assistenza tecnica qualificata, e la obbiettiva difficoltà nel certificare il prodotto.

[3] La Blockchain (letteralmente “catena di blocchi”) sfrutta le caratteristiche di una rete informatica di nodi e consente di gestire e aggiornare, in modo univoco e sicuro, un registro contenente dati ed informazioni (per esempio transazioni) in maniera aperta, condivisa e distribuita.